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24.12.02

Letteratura trans!

Concetto interessante. Equilibrio di animus e anima. Ogni scrittore che scriva usando un io narrante diverso dal proprio sesso fa una sorta di letteratura trans. Non se se io personalmente ne satei capace, se non a livello inconscio. Gli uomini che creo sono antologici, sono frutto di osservazioni ed esperienze, e della mia luuuuuunga carriera come confidente per il MIE (Maschio Italiano Etero, di cui più sotto). Scelgo di non affliggervi con le storie legate a questa mia attività extracurriculare.

Mi limito a mandarvi un bacio, con la forza che al momento mi resta. E che dopo l'anno blues, ci sia l'anno punk.

Giu



18.12.02

Blasi c'è
Diventerò un'icona gay

Non mi manca niente. Le inclinazioni artistiche, le abbiamo; la vita sentimentale cataclismatica, c'è anche quella; la personalità tutta frizzi e lazzi con un nucleo a fissione che implode al minimo scontro, check; anche l'aspetto non convenzionale rientra nel canone.
Sono pronta ad unirmi a Madonna, Maria Callas, Joan Crawford, Joan Collins, Faye Dunaway, Judy Garland, Liza Minnelli, Kylie Minogue e Paola e Chiara: sono pronta a diventare una diva, una star. Un'icona gay.
Non mi sfugge che sono l'unica scrittrice (o aspirante tale, inclinata in quel senso, insomma, avete capito) nella lista. Venitemi in aiuto, maschietti gay, a chi faccio compagnia? Jeannette Winterson? Lillian Hellman? Dorothy Parker? Virginia Woolf? Zelda Fitzgerald? (Lo so, mi pompo un pochino, ma sono una candidata, mica una consacrata; datemi tempo.)

Eccomi qui, sono pronta comunque. Ma da sola non ci divento: mi serve una consacrazione. Mi serve un piano, devo essere introdotta nell'ambiente. Sono quasi pronta. Ci metto il sangue che mi scola dal cuore dopo un anno di pugnalate, i chilometri di prosa, il sorriso forzato sui tacchi a spillo, la dose di Valium per prendere sonno, la determinazione, la consapevolezza di avere un unico talento e di doverlo sfruttare o morire.

Sono vostra, prendetemi; ma niente tailleur alla Jackie O, per favore. Mi sbattono.

13.12.02

Un giorno mi cresceranno le ali
Racconto minimo

Non sto bene. Questa non è una novità. Quando non sto bene, tendo a fare cose contemplative e un po' nostalgiche. Oggi, dopo essere passata per la posta, sono andata a mangiare un toast nella sede della SSLMIT, Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori. Ho studiato lì, un po' alla cacchio, come si conviene a quelle della mia generazione, non ben consce del significato e del valore di un'istruzione universitaria e figlie della generazione pre-femminista. Vabbè. Diciamo che sono una fancazzista.

La sede della SSLMIT è rimasta identica a tre anni e rotti fa, quasi quattro, quando mi sono laureata in un pomeriggio di marzo indossando un tailleur troppo corto e con un taglio di capelli alla maschietta che ora non ho più. E' ancora piena di ragazze e scarsa di maschietti. Quello che sembra essere cambiato è il riconoscimento della SSLMIT come polo della cultura omosessuale triestina: la bacheca degli annunci pubblicizza un Gay & Lesbian Christmas Party al bar della scuola, e dovunque sono sparsi i volantini che pubblicizzano la presentazione di Fuoco su Babilonia, il romanzo di Valentina Brunettin sui gay nei campi di concentramento nazisti.

La Scuola è il posto dove ho imparato che non esistono parole giuste o sbagliate, ma che basta mettere la parola giusta nel contesto sbagliato per rovinare parola e contesto. E quindi se io dico catarsi (catarsi, catarsi, catarsi), è una parola giusta che in questo contesto non significa un cazzo; laddove "cazzo" specifica molto bene la futilità del tutto, della catarsi, dell'istruzione universitaria, delle passeggiate invernali per farsi passare il magone, delle pause pranzo di sessanta minuti, dell'amore buttato via, delle occasioni perse e delle brioche con la marmellata.

Sto svariando.

Prima di andarmene sono passata per la biblioteca, previo depositamento della borsa nell'atrio antistante la biblioteca stessa, come si faceva anche quando ci studiavo io. Che poi non ci studiavo, mi limitavo a prelevare i libri che mi servivano e a portarmeli in un'aula vuota, per evitare la tentazione di perdere tutto il pomeriggio a chiacchierare con la prima compagna che mi capitava a tiro. Ai miei tempi, era proibito mollare le borse davanti alla biblioteca; ora si può, anche se è sconsigliato. Si vede che gli armadietti al piano terra non bastano più. L'assortimento di zainetti, comunque, è lo stesso.

In biblioteca, la mia amica Maria (una delle ritardatarie della laurea) non c'è. Do una sbirciatina anche nella sala computer, ora riservata esclusivamente ai laureandi. Presumibilmente per evitare che i poveracci debbano mettersi in coda dietro a duecento matricole in cerca di una connessione Internet gratuita da cui chattare. (Le mie abitudini chatterecce, ai tempi in cui le chat in java nemmeno esistevano, erano leggendarie al punto di finire sul mio cartellone di laurea.)

Passando di nuovo davanti alla porta, noto qualcosa che mi fa tornare indietro. Un foglio sbiadito, attaccato con lo scotch, ammonisce gli studenti: è vietato scaricare e installare software non autorizzato. E in un angolo del foglio, qualcuno ha scritto due versi di una canzone:

One day
I am going to grow wings - Radiohead


Quel qualcuno sono io, ero io. La canzone è Let Down, che si trova in OK Computer, uno degli album che mi porterei su un'isola deserta. Sull'altro angolo del foglio, un'altra grafia familiare ha citato due versi dei Police. Credo sia stato Luca, che si è laureato poco prima di me. In mezzo, qualcuno che non conosco ha citato Orietta Berti.

Scoppio a ridere, ed esco dalla biblioteca prima che qualcuno mi noti. Non che sia poco incongrua, nel mio piumino gigante e cappellino da puffo. Scendo svelta le scale, e mi dirigo verso l'ufficio.

Le mie tracce. Le tracce di quando credevo ancora che davvero, un giorno, avrei smesso di sentirmi così pesante, così schiacciata dalla gravità, costretta a ripetere gesti e parole ogni giorno, gesti e parole sempre uguali che mi portavano sempre allo steso risultato. Le tracce di quando mi tastavo mentalmente le scapole, ogni mattina, ogni sera.

Sono ancora qui che aspetto, ora più che mai.
Un giorno mi cresceranno le ali.

Giulia



9.12.02

Arrossendo disse...

Grazie. Poi mi dici quanto ti devo.

Però il tema di oggi è...

Aridaje. E' di nuovo colpa nostra: adesso siamo troppo aggressive, stiamo esagerando, e se non la smettiamo "nessuno ci vorrà più". Parola di Doris Lessing, Fay Weldon e Isabella Bossi Fedrigotti, e dei pochi uomini rimasti in Italia (Paolo e io abbiamo calcolato, statistiche alla mano, che nella fascia d'età dai 24 ai 35 noi donne siamo in eccedenza di circa 200.000 unità rispetto ai nostri coetanei. E' una giungla, là fuori!)

Il maschio italiano etero sta attraversando un'altra crisi. Perdonatemi se sbadiglio. Da quando abbiamo smesso di dare per scontato che pulire il water e il frigo fosse un'incombenza che ci spettava per decreto divino, il maschio italiano etero (MIE) non ha fatto altro che passare da una crisi all'altra. Colpa nostra: eravamo meglio prima, quando facevamo "oooooh" a ogni loro parola e non ci azzardavamo mai, dico mai, ad essere più in gamba di loro. O a darlo a vedere, che alla fine è la stessa cosa. Generazioni di donne sono state mutilate nello spirito dalle loro madri e nonne: "Non far mai vedere che sei intelligente o più brava di loro. Altrimenti non ti vogliono." L'ammirazione per il partner era ed è qualcosa che ancora compete solo a noi; Il MIE, quando dice che vuole una donna "intelligente", presumibilmente cerca una che sia in grado di finire il cruciverba del Bartezzaghi da sola.

Fay Weldon, a quanto pare, strappa dai giornali le recensioni dei suoi libri, in modo che il (terzo) marito, meno famoso di lei, non si senta "schiacciato" dal talento della consorte. Non è uno scherzo. Perché a me sembra meschino? (E soprattutto, il marito di Fay Weldon non si sente un po' un mentecatto adesso che tutto il mondo sa degli stratagemmi a cui ricorre la moglie per proteggerlo da se stesso?)

Il MIE non ama i confronti. Un tempo le donne "avevano la gonna", e non pretendevano la parità, addirittura "l'uguaglianza", "come se le tigri pretendessero di essere uguali ai leoni", si allarma la Bossi Fedrigotti, senza rendersi conto di dire una vera e propria bestialità: se avesse detto leoni e leonesse, magari anche anche, ma tigri e leoni cosa c'entrano? Saranno mica maschile e femminile della stessa famiglia? Non mi pare. E lasciamo stare le metafore animali, perché andiamo su un terreno minato, dato che le leonesse vivono per conto loro, cacciano, curano i piccoli, e ricorrono al leone solo per l'accoppiamento. Esattamente quello che il MIE sotto sotto teme: che non ci sia più bisogno di lui.

Adesso che anche in Italia le "ragazze", la "valanga rosa", come insistono a chiamarci qualunque cosa facciamo (sciagura che non siamo altro) stanno protendendo le mani verso una sorta di parità, nonostante tutto, il MIE trema. Piuttosto che rimettersi in discussione, piuttosto che aprirsi alla meraviglia del confronto con una donna-persona completa, viva, attiva, determinata, preferiscono raggomitolarsi frignando che "siamo troppo aggressive, facciamo paura". E le sciure di una volta sottoscrivono: attente, ragazze, rimarrete da sole. Alla fine lo sanno, le sciure, che a noi, a differenza del MIE, siamo in grado apprezzare entrambe le cose: un uomo intelligente e la nostra libertà, l'amore e la crescita personale, i figli e la carriera. Che non siamo così sciocche da pensare che la nostra indipendenza ci renda invulnerabili. Che sappiamo crescere, e migliorare, che lo facciamo da secoli, e che essere emancipate non vuol dire amare di meno gli uomini intorno a noi, ma semmai amarli di più, e con coscienza, e sapendo scegliere.

Forse è questo il problema. Quando eravamo un nulla in sottanina e bruciavamo dentro senza dare a vedere niente fuori, quando aspettavamo fino al matrimonio per non essere disonorate, quando i nostri confini erano le mura domestiche, accettavamo tutto. Ci bastavano gli uomini semplici, senza fronzoli, ciabatte e giornale. A noi, la liberazione ha fatto un effetto devastante: non ci vanno più bene gli uomini qualunque. Li vogliamo uguali a noi. Anche migliori, ma non inferiori. E invece il MIE, secondo la Bossi Fedrigotti, questa metamorfosi non l'ha subita. Lui continua a sognare il nulla in sottanina che gli porti il caffè. E dopo il caffè, magari il cruciverba del Bartezzaghi. Ma vuoto, non riempito.

(Guardate che lo so che mi darete della zitella acida. Magari. Forse è la volta che mi mandano MedioMan, mi sistemo e rido per il resto dei miei giorni. Sciura Bossi Fedrigotti, vada a quel paese; e già che c'è si porti anche il MIE, il quale, e parlo a nome di tutte, ci ha veramente rotto.)

Giu (imbestialita per oggi, ma domani andrà meglio)

4.12.02

E la relazione sociale ci guadagna

Non voglio essere l'ennesima a scagliarmi sulla programmazione televisiva (ci sono fior di critici che fanno questo lavoro meglio di me). Au contraire, vorrei ringraziare pubblicamente il governo per la la pessima gestione che sta (deliberatamente) conducendo nei riguardi della RAI, nonché per il livello da scuola elementare della programmazione Mediaset (al posto di Dharma e Greg, mi hanno messo un telefilm che non credo guardi nessuno; tanto valeva piazzarci il giroscopio dei programmi oppure le puntate di Buffy che hanno gradualmente sepolto nel palinsesto, oppure riesumare Millennium, una prima visione che sta andando in onda in piena notte). Quasi controcorrente, vorrei dire che non mi dispiace questo stato terrificante della TV italiana, zeppo di donnine invitanti, conduttori in mutande e programmi inguardabili. Perché vedete, essendo una cultrice della narrativa televisiva, mi sento quasi in colpa se mi perdo una puntata di ER piuttosto che del compianto X-Files. Mi sembra di lasciarmi sfuggire un pezzo di storia della televisione. Idem dicasi se in TV fanno un film che non ho mai visto e che mi interessa. Non ditemi di programmare il videoregistratore: numero uno, mi ci vuole troppo tempo ed energia mentale, numero due i programmi, anche i telefilm, vanno guardati subito, mentre succedono, come le partite di calcio. L'indomani, a puntata esaurita, devo essere preparata a discutere le implicazioni e le finezze di ogni scelta registica. Non posso farmi cogliere impreparata: "Ma come, non l'hai visto?"

Questi problemi di coscienza televisiva sono stati brillantemente risolti dalle scelte atroci compiute dai direttori del palinsesto delle reti nazionali. Improvvisamente, non c'è niente in televisione che valga la pena di guardare. Di questi giorni, spegnere l'apparecchio o sintonizzarlo sui mix di video a rotazione di ReteA, e poi andarmene nell'altra stanza, oppure uscire a bermi un birrino con gli amici, sono azioni da compiere a cuore leggerissimo. In alternativa, posso scrivere, oppure telefonare a un'amica che non sento da tempo, o attaccarmi al sistema di messaggeria istantanea nel mio PC e portare avanti lunghi simposi sul senso della vita e dell'amore con amici lontani (e Alex, che sta dietro casa mia).

Capite, la programmazione TV ci perde, il pluralismo hahahaha, ma almeno io ho di nuovo una vita sociale e affettiva. E me la rido.

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